Fiorentina, Antognoni e i 60 anni di passione

Written By Unknown on Selasa, 01 April 2014 | 23.45

FIRENZE - Il Museo del Calcio, dove incontriamo Giancarlo Antognoni alla vigilia dei suoi 60 anni, è il posto ideale per chi ha diritto di cittadinanza nel calcio. Lo è anche per Antognoni, ma solo a prima vista. O meglio, solo in parte, la parte che ha fatto di questo giocatore un pezzo di storia del calcio degli anni Settanta e Ottanta. Ma Giancarlo, il Capitano per tutti quelli di Firenze, non è ancora da Museo. E' uno spreco, per il calcio, per la Fiorentina in particolare, che sia racchiuso fra queste mura. Quando uno nasce con un dono come il suo va sfruttato fino all'ultima goccia del suo sapere. La federazione gli ha riservato un ruolo non di primo livello, dirigente accompagnatore delle nazionali giovanili; la Fiorentina non lo ha mai preso in seria considerazione. E' un peccato. Per il calcio, più che per lui. Oggi però non è il tempo di rimpianti. Qui c'è aria di festa, c'è aria di calcio. A guardarlo adesso, con questi ciuffi bianchi che un tempo erano biondi, ti senti di nuovo ragazzo. Nella nostra mente affiora solo un altro giocatore come il Capitano. Si chiama Gigi Riva. Non stiamo qui a raccontare la storia delle bandiere, i nostri figli e i nostri nipoti girerebbero subito pagina. Però siamo qui anche per ricordare che un giocatore è un uomo e un uomo, quando ne ha la possibilità, decide non il suo destino, ma la sua dimensione, il suo spessore. Antognoni, come Riva, ha scelto di lottare. Anche Rivera, anche Mazzola, anche Scirea, Baresi e Maldini sono stati simboli di epoche diverse, ma erano tutti legati a club di potere, economico o politico. Riva e Antognoni no, forse solo Totti (in parte) si può avvicinare. Erano la sfida al potere. Gigi una volta l'ha battuto, Giancarlo c'è andato solo vicino ma questo lo rende grande ugualmente.

Capitano sono 60. Come li festeggia?
«Con una festa organizzata in Palazzo Vecchio, sotto la regìa di Matteo Renzi, che mi propose quest'idea quando era ancora Sindaco di Firenze. Poi ci sarà una cena in famiglia».
   
Prossimo obiettivo: diventare nonno prima dei 70?
«In effetti vorrei diventarlo presto. Per ora Alessandro pensa al lavoro, ha un albergo in centro. Rubinia si è laureata in giurisprudenza, ma vive sempre con noi».
   
Che regalo le ha fatto Rita?
«Ancora niente. Del resto non sono mai in casa...».
   
Cinquant'anni indietro. Cosa ricorda di Giancarlo Antognoni all'età di 10 anni?

«Ricordo che tutta la mia famiglia viveva in un casolare in campagna, a Marsciano. Era una famiglia patriarcale, lavoravano tutti nei campi, andavano a battere il grano. E quando il Tevere straripava, noi restavamo isolati in casa per giorni e giorni. Un giorno mio nonno Domenico decise di trasferire tutta la famiglia a Perugia, acquistò tre appartamenti per ciascuno dei suoi figli e lui venne a vivere con noi. Morì dopo due anni. A Perugia cominciai a giocare a calcio in una squadretta che si chiamava Juventina...».
   
Antognoni a 20 anni.
«Ero già qui a Firenze. C'ero arrivato a 18 anni. Il primo stipendio fu 300.000 lire al mese. Nella stagione successiva arrivai a 2 milioni di lire. A Firenze arrivai grazie a una specie di... commisione tecnica: Pandolfini, Biagiotti, Liedholm e Furio Valcareggi mi ripete di continuo che sono diventato viola per merito di suo padre Ferruccio. Mi vedeva qui a Coverciano con la Nazionale Juniores di Azeglio Vicini. Mi acquistò il Torino e mi dirottò all'Astimacobi. Il Torino voleva acquistarmi definitivamente, ma non essendo maggiorenne potevo rifiutare il trasferimento. Qualcuno mi consigliò la cosa giusta: "Rifiuta il Torino perché ti vuole la Fiorentina". Andò così, presi quella decisione non per soldi e nemmeno perché mi piaceva più la Fiorentina del Torino, ma solo perché Firenze era più vicina a Perugia, a casa mia. Il Torino cercò di convincermi in tutti i modi. Un giorno venne a casa mia Gustavo Giagnoni. Quel decennio è stato il migliore sul piano calcistico. Mi cercò la Roma, andai a cena a casa da Viola perché Liedholm mi voleva a tutti i costi, prima che arrivasse Falcao. C'era anche la Juve, ma nessuno di loro ha mai parlato direttamente con me».
   
Non dimentica qualcosa di quel periodo?
«Il matrimonio con Rita quando avevo 23 anni e dopo quaranta siamo ancora qui, insieme. E poi la nascita di Alessandro».
   
Antognoni a 30.
«Avevo già avuto due incidenti brutti, prima la testa e poi la gamba, ma ero anche campione del mondo. Rinnovai il contratto dopo l''82, triennale. Presi tanti soldi, ma non paragonabili a quelli di adesso. Altobelli guadagnava 700 milioni e diceva che aveva l'ingaggio più alto. Io arrivai a 500, mentre Bruno Conti ne prendeva 50 dalla Roma. Lasciai la Fiorentina perché non c'era volontà da parte della società di tenermi e scelsi di andare a Losanna. Ma non è mai stato un addio, era solo una piccola pausa di riflessione. A Losanna mi pagarono bene, più di quanto guadagnavo».
   
Antognoni a 40.
«Iniziavo a fare il dirigente, uno scalino per volta, cominciai come osservatore. Il primo giocatore che andai a vedere fu Madonna dell'Atalanta. Poi diventai team manager, con Lazaroni. Vidi la finale europea della Under 21 a Montpellier, vinse l'Italia 1-0, ero andato lì per Rui Costa. Cois è stato il primo giocatore che ho portato a Firenze, Sottil il secondo. Volevamo portare anche Thuram, era tutto fatto. Incontro a Monaco col presidente Campora, c'erano anche Luna e Cinquini. Accordo sulla parola: 5 miliardi. Il giorno dopo siamo tornati a Monaco per la firma del contratto di Thuram: la firma c'era, 700 milioni di lire a stagione. Il giorno dopo Luna chiamò il Monaco per firmare il trasferimento, ma nessuno rispose più. L'anno dopo Thuram andò al Parma per 12 miliardi».
   
Antognoni a 50 anni.
«L'anno dell'infarto».
   
Superato.
«Certo. Ho iniziato a collaborare con la federcalcio. Ma di quel periodo è anche la delusione per non essere rimasto nella Fiorentina con Della Valle».
   
Antognoni adesso. Cosa vede nei suoi 60 anni?

«Vorrei migliorare la mia posizione, oggi ho un bel ruolo perché sto in mezzo ai giovani. Però vorrei arrivare un po' più su».
   
Pensa a un posto da dirigente della Nazionale?

«Sì, ma finché c'è Gigi Riva quel ruolo è suo. Gigi è un simbolo del calcio italiano».
   
Dopo il fallimento della Fiorentina, lei disse che la Rondinella aveva storicamente più diritto della nuova Florentia di indossare la maglia viola. Per questa frase lei non fa parte della Fiorentina dei Della Valle.
«Era una battuta, forse presa male. E se quella è una giustificazione, è un po' poco. Quando incontrai Della Valle gli chiesi un colloquio, non un posto di lavoro. Colloquio che non c'è mai stato. Quel giorno eravamo Diego, Andrea e io. Diego mi disse: "Ho un pensiero per lei per il futuro". Non li ho più sentiti, né più visti. Sono passati 7 anni».
   
Ne sono passati 30 da quando lei ha smesso di giocare. Oggi in curva Fiesole ci vanno ragazzi che non l'hanno mai vista in campo, eppure l'amore non è diminuito. C'è una bandiera che sventola con la sua effige e la scritta "Onora il padre". Perché succede?
«Perché non ho mai tradito».
   
Dopo Riva e Antognoni, c'è un altro simbolo?
«Totti, anche se la Roma è più competitiva di quanto lo erano il Cagliari e la Fiorentina di allora».
   
Di tutti i "nuovi Antognoni" che la stampa italiana ha nominato dal giorno del suo addio a oggi, chi è quello vero?
«Devo fare lo stesso nome: Francesco Totti. Mi assomiglia per il tiro, la tecnica e il dribbling».
   
Chi era Liedholm per lei?
«Il maestro».
   
Picchio De Sisti?
«Il compagno e l'allenatore con cui avevo più confidenza».
   
Bearzot?
«Il padre. Mi ha voluto bene come un figlio visto che mi ha fatto giocare 10 anni in Nazionale quando avevo tutti contro».

Agroppi?
«Croce e delizia per me. Delizia per le battute, ma forse i numeri 10 non gli stavano simpatici. Ha pizzicato anche Baggio per la storia degli orecchini».
   
La Juve?
«L'avversaria numero 1 da battere».
   
Il suo compagno diventato amico?
«Moreno Roggi. Ho cominciato con lui e siamo ancora legati».
   
Il suo gol più bello?
«Quello che mi hanno annullato, contro il Brasile al Mondiale dell''82. Era buono e se non l'avessero annullato avrei giocato anche la finale di Madrid».
   
In che senso?
«Volevo fare un gol a tutti i costi in quel Mondiale e per questo contro la Polonia, in semifinale, mi sono infortunato: avevo deciso di tirare in porta, Matysik ci ha messo il piede e mi sono tagliato il piede».
   
Ci pensa ancora oggi alla finale non giocata?

«Oggi mi dà più fastidio di allora, perché so quello che ho perso».
   
A proposito di infortuni: lo scontro del novembre '81 fu colpa di Martina?
«Rivedendolo sì, anche se allora l'ho scagionato».
   
Ha mai sofferto il blocco degli juventini?
«All'inizio un po' sì. Era difficile inserirsi, fuori e anche in campo. Le punizioni, per esempio, volevano tirarle loro. E poi io non ero un tipo entrante».

Sessant'anni da festeggiare a Firenze. Il ricordo più vero qual è stato?
«Non posso dire le vittorie. Allora ci metto gli esordi e i ritorni in campo, quando ad aspettarmi c'era uno striscione di 70 metri».
   
Il ricordo più brutto?
«Per me il calcio è stato ed è tutto bello».


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