L'esterno inglese ha fatto il suo ennesimo esordio, questa volta nel campionato francese (dopo quello nei tornei inglesi, italiano e americano). Nella Notte degli Oscar, lui ha trasformato una partita di pallone in una sorta di prosecuzione europea del clima glamoureuse della sfida a colpi di Statuette
ROMA - E alla fine apparve. David Beckham ha fatto il suo ennesimo esordio, questa volta nel campionato francese (dopo quello nei tornei inglesi, italiano e americano). Nella Notte degli Oscar, lui ha trasformato una partita di pallone in una sorta di prosecuzione europea del clima glamoureuse della sfida a colpi di Statuette. Perché, in realtà, di calcistico il suo esordio ha veramente ben poco. Come, d'altronde, poco di sportivo aveva avuto anche il suo passaggio italiano e persino quello americano (significativamente la sua squadra era quella di Los Angeles, roba giocata tra Beverly Hill e Santa Monica, tra spiagge sconfinate e shopping a Rodeo Drive). Immaginiamo Carlo Ancelotti, tecnico pane e mortadella (anche per origini geografiche) un po' stranito tra tanti lustrini e paillettes, più che sorpreso, probabilmente a disagio, lui che sull'altare del calcio, quello veramente giocato, ha sacrificato un paio di ginocchia, che ha vinto sul campo soffrendo e gioendo. Beckham viene, invece, da un altro pianeta, a metà strada tra Wembley e l'Academy Award, anzi forse più spostato ormai su quest'ultimo che sul primo. È il primo calciatore che ha dato più fuori dal campo che in campo (dove pure non è stato l'ultimo della compagnìa), che ha costruito la sua immagine più sulle copertine patinate delle riviste di gossip e di moda che negli spogliatoi carichi di umori molto diversi da quelli che aleggiano in una sfilata di Giorgio Armani (lì, almeno, non devi temere che qualcuno ti lanci uno scarpino bullonato in fronte).
Nel calcio, per carità, ci può stare tutto ma l'atleta che passa tra due ali di folla passeggiando sul Tappeto Rosso come a Venezia o a Cannes o, appunto, a Hollywood, è cosa che ha ben poco a che vedere col pallone. Certo il suo nuovo stadio si chiama Parco dei Principi ma sarebbe disdicevole se uno di questi giorni il ragazzo si presentasse con una folta e candida parrucca, piena di "boccoli" come quelle dei re e dei principi settecenteschi (a molti di loro, però, i rivoluzionari, uomini di pessimo carattere provvidero a tagliare la testa evidentemente innervositi per l'esibizione eccessiva di ricchezza). David è anche un bravo ragazzo, ha devoluto il suo ingaggio in beneficenza. Però, lontano dal terreno di gioco si spengono i clamori che alimentano la "fabbrichetta" familiare che ruota intorno a lui e alla Posh Spice, Victoria Adamas, una che in carriera ha più incassato (dollari e sterline) che cantato. L'altra sera, prima di esibirsi per quindici minuti, lo hanno accolto con le note di una intramontabile Hey Jude che nel primo verso sembra contenere proprio un invito per l'ex Stella del Manchester United: "Non peggiorare le cose". A voi la scelta tra i Beatles e David, Piccolo Principe che al calcio ha già dato.
Antonio Maglie
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